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L’Officina dello Scrivere ad Alta Voce ritorna

settembre 22, 2018 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  2 Comments

 

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Siamo al consueto appuntamento autunnale: l’Officina dello Scrivere ad Alta Voce riapre le porte.

E siamo già al quinto anno! Mi sembra ieri quando la mia amica Rosanna Ianni ed io ci siamo incontrate in un locale del centro qui, alla Spezia. Non ci vedevamo da un po’, venivamo da esperienze diverse, ma avevamo entrambe frequentato anni prima un laboratorio di scrittura che – tra alti e bassi – ci aveva molto coinvolte, morivamo di nostalgia e ci siamo dette, guardandoci negli occhi: “Perché non crearlo noi un corso?” Così abbiamo riunito delle compagne appassionate di scrittura, altre nuove ne abbiamo coinvolte ed è nato questo progetto a cui entrambe teniamo moltissimo.
Il nome “Officina” significa che è una fucina, un crogiuolo di idee, che si mettono in comune e vengono poi elaborate in modo personale da ogni partecipante, nonché discusse da tutto il gruppo. All’Officina naturalmente si scrive, si fanno esercizi estemporanei, ne vengono assegnati altri da eseguire a casa e portare al prossimo incontro. Ma all’Officina si legge anche molto (non si può scrivere senza avere letto, dai classici ai contemporanei, ecc.) e si legge ad alta voce, per migliorare la propria capacità espressiva.
Premesso che non è per nulla semplice coordinare un guppo, accoglierne le dinamiche, cercare di mantenere un giusto distacco dalle vite delle persone presenti, che spesso ci coinvolgono nel profondo, man mano che si approfondisce la conoscenza di ciascun allievo, fare da moderatori ai conflitti che possono verificarsi… posso dire comunque, parlando anche a nome della mia collega, che quest’esperienza è stata e spero continuerà ad essere arricchente per tutti noi: l’ora e mezza d’incontro settimanale non lascia indifferenti, quando ci si saluta uscendo dall’aula della Mediateca Regionale Ligure, dove ci riuniamo ogni giovedì,  abbiamo dentro un’energia, un calore, una passione e desiderio di approfondire le tematiche trattate, magari provare a scriverci su, che ci fa bene all’anima.
Personalmente ritengo che la lettura, la scrittura, ma qualsiasi forma artistica, abbiano funzione terapeutica insostituibile.
Siamo soddisfatte e fiere delle nostre allieve, che hanno già ottenuto riconoscimenti a vari concorsi (quelle che ancora non li hanno ricevuti sono coloro che non hanno ancora osato inviare le loro opere…), anche questo rappresenta un incentivo per continuare in un’impresa, che portiamo avanti con passione e serietà. I corsi di scrittura, si sa, sono ormai innumerevoli e la scelta è molto vasta. Tra di essi s’inserisce anche la nostra piccola realtà, che amiamo e coltiviamo con determinazione,  perché crediamo fermamente nella sua “bellezza”.

 

 

Il teatro come comunità

settembre 14, 2018 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

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A Sarzana, nell’ambito del Festival della Mente 2018, nella giornata di domenica 2 settembre, ho assistito all’incontro con Matteo Nucci, che ci ha parlato del teatro greco, in modo essenziale ed entusiasmante. Un incontro che non volevo perdere, avendo io fatto studi classici ed essendo affascinata da quel mondo.
Nucci ha posto l’accento innanzitutto sul fatto che il teatro per i Greci costituiva una esperienza estetica d’importanza fondamentale; venivano rappresentate tre tragedie e un dramma satiresco. L’attore protagonista introduceva i temi, il prologo, il contesto, poi entrava in scena il Coro, elemento importantissimo, composto da 15 coreuti, che entravano dal corridoio laterale – Parodo -, da sinistra, e andavano a posizionarsi nella Orchestra, chiamata così dal verbo greco “orcheomai”, che significa “danzare”,  perché mimavano passi di danza. Della musica antica possiamo solo immaginare quello che suscitava e come vibravano quelle sonorità; di certo era musica “ipnotica”, trasportava gli spettatori in un’altra dimensione (un quartetto di quattro musicisti locali e una splendida voce femminile solista hanno accompagnato Nucci nella sua esposizione).
Tutti conosciamo (e se qualcuno non ne fosse al corrente vi invito a leggere “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”) la famosa distinzione fatta dal filosofo Nietzsche tra “apollineo” e “dionisiaco”, i due poli opposti ma entrambi essenziali su cui si basa la mentalità greca: entro ognuno di noi vibra l’animalità, noi siamo animali dotati di “logos”, capacità di linguaggio. Ecco, nella tragedia gli spettatori facevano esperienza trascendente: andavano oltre il  “principium individuationis”, sentendosi parte di un tutto unico.
“I Persiani” di Eschilo sono la tragedia più antica fra quelle tramandateci. Racconta non fatti del mito, ma avvenimenti storici che tutti gli Ateniesi conoscevano: nel 480 a.C. i Persiani tentano l’invasione della Grecia e vengono respinti a Salamina. Nucci ha osservato che ci colpisce soprattutto come viene messa in scena la tragedia. In greco antico, la parola schenè significa “tenda”, si trattava infatti di una tenda piazzata dietro il coro, dove gli attori si cambiavano… poi venne dipinta e passò a fare scenografia. Ma all’inizio era proprio una tenda, nei Persiani una tenda lussuosa, piena di ori. La scena era a Susa e vi compariva Atossa, madre di Serse, che voleva sapere cosa succedeva all’esercito persiano. La grandezza di Eschilo è avere descritto il tutto dal punto di vista dei Persiani, dei vinti (non dei vincitori). Il dolore provato dai Persiani per la sconfitta, per i morti, ecc. è quello di tutti gli esseri umani che peccano di “ubris”, ovvero di tracotanza, per aver superato il limite, ignorando la legge. Alla ubris segue inesorabilmente il dolore – questo canta il Coro, composto da anziani: il dolore di un popolo intero.
La parola teatro deriva dal verbo greco che significa “osservare”: teatro non era solo la struttura materiale in cui si andava ad assistere allo spettacolo, ma la comunità di coloro – gli spettatori – che facevano esperienza estetica e conoscitiva dei fatti narrati.
L’idea del “vedere” è connessa, nella Grecia, con quella di “sapere”. Il verbo “oida”, che è l’aoristo di “orao”, significa infatti “so”, in quanto “ho visto”. Per gli antichi la conoscenza seguiva un atto di visione (Ulisse conosce molto, perché molto ha visto). La tragedia in cui si parla di questo è, senza dubbio, “Edipo re” di Sofocle. Edipo entra in scena con occhi luminosi, crede di sapere tutto, in realtà non sa niente, e alla fine se li strapperà quegli occhi inutili. Il cuore del dramma è quando Edipo incontra Tiresia, l’indovino cieco, colui che non la la vista, ma possiede la capacità di “prevedere”. Gli occhi fisici non servono a nulla infatti, se non si possiedono quelli della mente. Edipo è certo di conoscere, ma non conosce nulla, si rivela essere un “idiota”, parola non intesa nel significato che noi oggi le diamo, ma nel senso etimologico di “privato”. Idiota (notare che ha la radice “id”, sempre del verbo “vedere”) è colui che si occupa solo del suo privato, chi non sa guardare oltre il proprio naso, perché non gli interessa ciò che è pubblico, ma solo le proprie faccende. Ma uno che non va oltre se stesso finisce per perdere se stesso, arroccandosi nella difesa di ciò che ha, non capisce che perdere ciò che ci appartiene, ci fa guadagnare altro…
Dobbiamo perderci nella musica, sentire la nostra appartenenza ad una umanità superiore, sentire la nostra profonda animalità, allora entra in vigore la legge più duratura dell’antichità: la “xenia”. “Xenos” è lo straniero, ma anche l’ospite (xenofobia oggi, filoxenia per i Greci): Legge della xenia era ospitare il forestiero che arrivava senza cattive intenzioni, dare ospitalità a chi veniva da fuori (se poi questa non veniva ricambiata erano spietati…). Ulisse viene accolto dai Feaci, ad esempio. Quale tragedia parla di questo tema? “Medea” di Euripide.
Medea rappresenta l’amore selvaggio, l’eros che fa impazzire, compie una vendetta mostruosa: uccide la nuova moglie di Giasone, il padre di lei e i propri figli avuti con Giasone. Ma Medea chi è? Medea è “la straniera” per eccellenza, è “la barbara” (il significato etimologico del termine è “balbuziente” perché non conoscendo la lingua non parla greco, balbetta…) Proviene da una regione lontana, selvaggia: la Colchide, sul Mar Nero. Però lei ha accolto Giasone e gli Argonauti che cercavano il famoso “vello d’oro”, li ha accolti e aiutati, rinunciando a tutto, tradendo il padre e il suo popolo, fuggendo con lui… Ma, arrivata in Grecia, Medea non è ben accolta a Iolco, né a Corinto dove Giasone decide di spostarsi e unirsi alla figlia del re del posto. Non viene data ai figli di Giasone e Medea la cittadinanza, perché lei è la “straniera”, la “barbara”. La sua vendetta è selvaggia. Medea brucia d’amore e rancore, un rancore mostruoso che va oltre la propria umanità, l’appartenenza a quel che dovremmo essere, la nostra “animalità”.
Dopo Euripide, ultimo grande tragediografo,  prende il sopravvento il dialogo, il “socratismo”, non più la musica, si “discute”. Socrate è il primo “filosofo”: passava le giornate a parlare con chiunque incontrasse, metteva in discussione, metteva in “crisi”, parola che in greco significa “scelta”; il verbo “krino” significa scegliere, “diakrino” vuol dire “discernere”. Ma già gli eroi ed eroine protagonisti della tragedia si trovavano a scegliere; il destino degli esseri umani è soffrire: questo il messaggio. Siamo costretti a prendere delle decisioni, a non rimanere al bivio, a rischiare, pur sapendo che soffriremo.
Socrate invita alla discussione: siamo in disaccordo? Bene, discutiamone, alla fine si arriverà ad intenderci… comunque ad un punto d’incontro. Fuori dal teatro ci si incontrava, infatti,  e si discutevano i temi proposti, questo era magico, questo vale come esempio da imitare anche oggi, soprattutto nel mondo attuale: vedersi, discutere, conoscersi e superare le barriere dell’individualità, perdere il “principium individuationis”, per sentirci parte di un tutto immenso…

L’inconscio del libro

settembre 08, 2018 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

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Ieri pomeriggio ho avuto il piacere di ascoltare, anzi di godermi fino all’ultimo secondo, l’intervento di Massimo Recalcati, ospite al “Festival della Comunicazione” di Camogli.
Con la sua consueta capacità affabulatoria e il dono sommo della sintesi, Recalcati ci ha introdotti nel mondo della lettura: cosa accade nella nostra mente quando leggiamo un libro… e innanzitutto, come si può definire il libro?
Il libro è un CORPO: già ne “L’ora di lezione” Recalcati affermava che compito dell’insegnante dovrebbe essere quello di trasformare il libro in corpo, dargli carne e spessore vitale, renderlo un “corpo erotico” (sottotitolo di quell’opera è infatti:”Per un’erotica dell’insegnamento”). Il libro è un corpo vivo, non è un erbario impolverato di quelli che le maestre d’un tempo (e ha ricordato la propria) facevano comporre agli alunni, portandoli nei giardini a raccogliere le foglie cadute… Il libro è un corpo vivo, dotato di un suo volto, un profumo, un modo di camminare… Questo è il miracolo di una lezione, di un commento, di qualcuno che legge e trasforma il libro in “Corpo”.
Il libro è un MARE: il libro assomiglia al mare, perché come il mare chiede di essere aperto. Un libro chiuso è un controsenso. C’è gente che acquista libri per esibirli, esporli nella libreria, senza leggerli. Ma la libreria ha una voce, una vocina che dice, instancabile : “Leggimi, leggimi!”  I libri sono belli quando si disfano, da tanto che li abbiamo aperti, quando sono pieni di scotch. Come il mare, il libro ha una funzione de-segregativa, è l’anti-muro. Il muro recinta, segrega, discrimina, chiude. Il libro spacca il muro, lo destabilizza, lo crepa. La potenza del libro è sismica nei confronti di tutti i “muri”.
Il libro, la sua essenza, è essere un “mare di parole”. Più c’è ricchezza di linguaggio, più c’è apertura del libro, il mondo si dilata. Il libro, come mare, ha la proprietà di allargare i confini del mondo.
Il libro è un COLTELLO. Non è il burro sui cui s’incide il coltello della lettura, ma è il libro stesso che “taglia” noi. Il libro separa la nostra vita dal prima al poi. Pensiamoci: alcuni libri “tagliano” la nostra vita, rappresentano un incontro che modifica la nostra routine, ecco perché noi siamo anche i libri che leggiamo, i libri che abbiamo letto. La libreria disegna il nostro ritratto più intimo, i libri che conserviamo sono “fotografie”.
Cosa significa leggere un libro? Naturalmente, per leggere occorre conoscere l’alfabeto: quando i bambini apprendono l’alfabeto si aprono alla possibilità di aprire un libro. Andare a scuola è andare verso i libri. Ma il campo del linguaggio a cui tutti noi obbediamo (le regole della grammatica che strutturano il linguaggio, ecc.) non esaurisce il campo della lingua. Esiste una lingua che precede tutto questo. Lacan la definisce “lalingua” , che tutti noi portiamo nel nostro inconscio.
La parola che obbedisce alle leggi del linguaggio è un flusso che esce dalla bocca, mentre “lalingua” è il primo corpo di cui noi siamo fatti: nell’infanzia siamo colpiti, bombardati dalle parole di chi ci sta intorno, soprattutto la madre, dalla presenza, dal suono, dal timbro della voce della madre. “Lalingua” è un complesso singolarissimo fatto di memorie, odori, profumi, suoni, emozioni, affettività profonda… non scompare con l’accesso al linguaggio, ma si incide, come stampata, nell’inconscio, tutti ne portiamo la memoria, continua a vivere, è la brace sempre presente. “Lallazione” è quando il bambino non sa ancora articolare parole, ma emette suoni col corpo. Per cui, il linguaggio è universale, mentre la “lalangue” è personalissima, originalissima per ognuno di noi.
Quando io leggo, non sono io che “governo”, che leggo il libro, ma è il libro che “legge” me (così come è il quadro che mi “guarda”, la fotografia che mi “punge”, ecc.). Il libro scoperchia il campo vivo, la brace viva della lingua, mi fa riscoprire cose che avevo dimenticato. Chiaramente non con tutti i libri accade questo miracolo. I libri che non si dimenticano sono quelli che mi leggono, che “leggono” la mia vita, in quanto stampata dalla lingua dell’altro… Lo stesso avviene con la musica. Nella lettura della musica noi apriamo il nostro orecchio, ascoltiamo il flusso che raggiunge l’orecchio, quando la musica porta la pace in noi, ci rasserena, è perché ci “corrisponde”, e siamo “ascoltati” da lei.
Infine Recalcati ha citato i suoi due primi libri indimenticabili. “Il sergente della neve” di M. Rigoni Sterne, che narra la ritirata degli alpini dalla steppa russa, durante la seconda guerra mondiale. Lo lesse a 13 anni, senza conoscere bene lo sfondo storico, ma l’incipit gli si stampò nel cervello per sempre. Cosa poteva avere attratto un ragazzino, di questa narrazione? Certo la dimensione eroica della battaglia, della resistenza, ma c’era qualcosa di più: lui sentiva sulla pelle il gelo, la neve, il vento della steppa, e udiva quei passi, messi a fatica uno dietro l’altro, per tornare a casa (una casa lontana migliaia di km). Il fatto è che Recalcati da piccolo era stato battezzato e nello stesso tempo gli era stata impartita l’estrema unzione, in quanto nato prematuro e destinato alla morte. Aveva sperimentato il freddo polare dell’incubatrice, e l’allontanamento da casa. In fondo era stato un piccolo “sergente della neve”, per questo aveva potuto “essere letto” da quel libro. Il suo secondo libro indimenticabile sono i “Vangeli“. Ciò che lo attraeva di Gesù erano i miracoli: letteralmente innamorato dell’acqua che diventa vino, del cieco che riacquista la vista, le acque che si dividono o sostengono un corpo, la resurrezione di Lazzaro… Miracolo è quando l’impossibile diventa possibile, la morte si trasforma in vita, i pesci e i pani si moltiplicano… Il miracolo che sentiva, che quella lettura aveva fatto nascere in lui, era la sensazione di non essere destinato al ruolo che i genitori avevano stabilito per lui (probabilmente floricoltore), ma che ci fosse la possibilità del desiderio, come “moltiplicatore” di pani e di pesci. Il suo Gesù, in fondo, assomigliava molto al sergente della neve: la morte non era l’ultima parola sulla vita, si poteva resistere alla morte (come avevano resistito i soldati), reistere alla tentazione di adagiarsi nel sonno, sulla neve.

Stanca

luglio 20, 2018 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

IMG_20180424_080344Esercizio di scrittura veloce fatta manualmente, esercizio per chi sa ancora usare la penna, esercizio matto delirante entusiasmante liberatorio, eseguito senza sollevare la penna dal foglio, senza interruzioni di sorta.

Stanca

Sono stanca di me di te di noi di voi di loro di egli di ella che non si usano più, cucù corococò, tre civette sul comò a fare il filo alla figlia del dottore che stava lì, la scema, a contare le ore, sissignore, stanca sono di tutto il mondo, dal Perù a Singapore, a Camaiore, al Battello a vapore che va su e giù nel Missipipì, fanne un barile al giovedì che c’è la congiunzione planetaria universitaria tra Urano e Marte, se la giocano a carte, tresette e scala reale, l’omino nero e la dama bianca che alza la sottana e sotto ha i calzerotti a strisce rosse di lana, stanca sono di essere carina, se ti risento dire che sono dolcina ti faccio pelo e contropelo, ho umore nero, è permesso? Se non lo è fa lo stesso, non esiste il nesso tra il dire e il fare e c’è di mezzo davvero il mare, poi vorrei sapere perché di ogni cosa ci si chiede il perché… ogni tanto ‘sti scienziati vengon fuori con le biglie a colori, han pure la presunzione di essere ammirati, ti fanno scoperte che… nemmeno i frati quando sono ciuccati dai liquorini che tengono nascosti nei comodini… tipo, scoprono che andare in riva al mare risolleva l’umore, fa bene al cervello, non lo fa saltare, oppure che anche gli animali hanno un’anima, bella come tu’ sorella, o che tutti proveniamo da una stella, me li cuocerei in padella questi spara-paroloni, che non sono nemmeno buoni, preferisco cacio e maccheroni, una bella montagna, come nel Paese di Cuccagna, e non parlatemi della prova costume, mettetevi una foglia legata con la fune, che tanto al mare mica guardano voi, stan tutti lì col naso appiccicato al cellulare e, se non c’è la rete wifi, in spiaggia non ci vai! Ma come fai, se face book, instagram, telegram, criptogram, cretinottigram non ce l’hai? Ahi, ahi, ahi! Sei fuori dal mondo, in fronte hai scritto Giocondo! Non sei mai stato taggato? Nemmeno un pochino hackerizzato? Disgraziato! Sei proprio uno sfigato! Non hai mai aggiornato il tuo profilo fb? Ma fermati qui! Non ti credo, dai! Un profilo di merda già ce l’hai, con quel naso che, permettimi, sarebbe bene ritoccare… se vuoi mi do da fare, la cugina della sora Pina conosce un chirurgo di quelli che… neanche le dive della tivù! In due mosse te lo tira su! Non t’interessa? Preferisci al naturale…. neppure le labbra a canotto vuoi farti fare? Ma tu stai male! Le rughe sono la tua forza? Ami i tuoi occhi con la borsa? Senza offesa ma… pare quella della spesa!
Sono stanca ma non arresa, ogni volta che sono appesa a un filo, o meglio, che cammino sul filo del rasoio – e ormai nel mondo s’è esaurito anche il petrolio e non san più cosa fare – ti parrà irreale ma accade sempre qualcosa: scorgo il merlo che canta delicato su un cancello tra rami di rosa, la mia gatta matta in posa da sfinge mi fa l’occhiolino, il sacchetto di lavanda allaga di profumo il comodino, qualcuno – forse un bambino – ha lasciato qualcosa sul muretto a me caro – mi fermo quasi senza respirare e resto lì a fissare una farfalla di carta che allarga le ali screziate di turchese, un angelo me l’ha fatta trovare , non so se piangere o cantare, in risposta alla mia richiesta di ieri quando mi disperavo, in preda ai più cupi pensieri.
I miracoli accadono, altroché, e solo una testarda come me ci deve sempre battere di naso, peggio di Tommaso. Non è mai un caso quello che succede, la vita ha mille pieghe, puoi fartici una tana e infilartici sotto o scatenare un quarantotto, fuoco e fiamme con il botto, urlare “Basta!” poi deciderti a buttare giù la pasta – intanto che l’acqua bolle, invece di startene accasciata sul divano, che manco ce l’hai, prendi la penna in mano e butti fuori le sconfitte con gli allori, fiori e cavolfiori, sale e pepe, rotoloni di notti inquiete, sprazzi di cielo, il passero sul melo, il disgelo dei ghiacci, i sogni pazzi, il cuore di sole sul cuscino, l’acqua con il vino, la perla d’una lacrima sul viso, l’improvviso aprirsi d’un sorriso.

La Preda

maggio 15, 2018 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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Anni fa, ero al “Vicolo Intherno”, un piccolo locale della nostra città, La Spezia, frequentavo da poco un corso di scrittura, ero entrata in un magico mondo a cui appartenevo da sempre senza che me ne fossi resa conto prima.

Avevamo ascoltato una registrazione in cui si leggevano brani del poeta Giorgio Caproni, tutti affascinanti, ma uno in particolare mi aveva colpito. Parlava di un conte e della caccia a un essere strano… Il tema proposto dall’insegnante in quella serata era appunto ” La preda”.
Dalla mia penna uscì questo:

La preda.

Aveva inseguito la preda tutto il giorno e ancora adesso, calato il buio, continuava a cercare di braccarla, avanzando in mezzo all’erba così alta che bisognava aiutarsi con le mani per scansarla. Doveva annusare, fiutare, snidare, calcare coi piedi le orme lasciate dai piedi…i suoi non li sentiva più, come volasse ormai. Correva, il fiato ansimante dietro quell’altro… Sapeva che c’era da qualche parte, vicino o distante.
L’ebbrezza del sangue l’aveva eccitato, in mano il pugnale: l’avrebbe imbevuto, l’avrebbe macchiato! Aveva ormai perso coscienza del tempo, dell’ora, tremava persino, ma non di paura: già pregustava il momento – sarebbe infine arrivato – in cui a perdifiato avrebbe immerso il pugnale in qualcosa… e giù senza posa. Ancora filava, ansava, sfiatava… e l’Essere anch’esso, ne sentiva il respiro nell’aria intorno a sé, finché gli parve girasse in tondo e poi dietro, alle spalle. Restò interdetto: questo sì, era un dispetto!
Si mise a tirare fendenti a manca e a destra, col mal di testa, l’orrore, l’ardore che gli rimaneva. Credeva d’essere lì da una vita, in mezzo alla notte, nell’erba alta fino alla faccia, al freddo, alla fame, all’eterna sua caccia.
Danzare sembrava, una danza selvaggia: due passi indietro poi gira, tre di lato e vai giù, ti abbassi, ti acquatti. Perduto aveva berretto e casacca, sferzata la faccia da rami e da spini.
E tira un fendente e finisce il pugnale nell’aria, nel vuoto, ma dura poco. Infine la coglie la carne, sì, bene!  La lama sprofonda, s’affonda, beve quel sangue caldo, sì, beve!
Felice, l’ha presa la vita, alfin l’ha ferita!
E urla, poi canta, continua a gridare, ululando si dimena, gli manca la lena e s’abbatte in un lago di sangue: lo squarcio nel ventre, nel petto l’annega.
Ecco, l’ha presa la preda! L’ha presa!