A Sarzana, nell’ambito del Festival della Mente 2018, nella giornata di domenica 2 settembre, ho assistito all’incontro con Matteo Nucci, che ci ha parlato del teatro greco, in modo essenziale ed entusiasmante. Un incontro che non volevo perdere, avendo io fatto studi classici ed essendo affascinata da quel mondo.
Nucci ha posto l’accento innanzitutto sul fatto che il teatro per i Greci costituiva una esperienza estetica d’importanza fondamentale; venivano rappresentate tre tragedie e un dramma satiresco. L’attore protagonista introduceva i temi, il prologo, il contesto, poi entrava in scena il Coro, elemento importantissimo, composto da 15 coreuti, che entravano dal corridoio laterale – Parodo -, da sinistra, e andavano a posizionarsi nella Orchestra, chiamata così dal verbo greco “orcheomai”, che significa “danzare”, perché mimavano passi di danza. Della musica antica possiamo solo immaginare quello che suscitava e come vibravano quelle sonorità; di certo era musica “ipnotica”, trasportava gli spettatori in un’altra dimensione (un quartetto di quattro musicisti locali e una splendida voce femminile solista hanno accompagnato Nucci nella sua esposizione).
Tutti conosciamo (e se qualcuno non ne fosse al corrente vi invito a leggere “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”) la famosa distinzione fatta dal filosofo Nietzsche tra “apollineo” e “dionisiaco”, i due poli opposti ma entrambi essenziali su cui si basa la mentalità greca: entro ognuno di noi vibra l’animalità, noi siamo animali dotati di “logos”, capacità di linguaggio. Ecco, nella tragedia gli spettatori facevano esperienza trascendente: andavano oltre il “principium individuationis”, sentendosi parte di un tutto unico.
“I Persiani” di Eschilo sono la tragedia più antica fra quelle tramandateci. Racconta non fatti del mito, ma avvenimenti storici che tutti gli Ateniesi conoscevano: nel 480 a.C. i Persiani tentano l’invasione della Grecia e vengono respinti a Salamina. Nucci ha osservato che ci colpisce soprattutto come viene messa in scena la tragedia. In greco antico, la parola schenè significa “tenda”, si trattava infatti di una tenda piazzata dietro il coro, dove gli attori si cambiavano… poi venne dipinta e passò a fare scenografia. Ma all’inizio era proprio una tenda, nei Persiani una tenda lussuosa, piena di ori. La scena era a Susa e vi compariva Atossa, madre di Serse, che voleva sapere cosa succedeva all’esercito persiano. La grandezza di Eschilo è avere descritto il tutto dal punto di vista dei Persiani, dei vinti (non dei vincitori). Il dolore provato dai Persiani per la sconfitta, per i morti, ecc. è quello di tutti gli esseri umani che peccano di “ubris”, ovvero di tracotanza, per aver superato il limite, ignorando la legge. Alla ubris segue inesorabilmente il dolore – questo canta il Coro, composto da anziani: il dolore di un popolo intero.
La parola teatro deriva dal verbo greco che significa “osservare”: teatro non era solo la struttura materiale in cui si andava ad assistere allo spettacolo, ma la comunità di coloro – gli spettatori – che facevano esperienza estetica e conoscitiva dei fatti narrati.
L’idea del “vedere” è connessa, nella Grecia, con quella di “sapere”. Il verbo “oida”, che è l’aoristo di “orao”, significa infatti “so”, in quanto “ho visto”. Per gli antichi la conoscenza seguiva un atto di visione (Ulisse conosce molto, perché molto ha visto). La tragedia in cui si parla di questo è, senza dubbio, “Edipo re” di Sofocle. Edipo entra in scena con occhi luminosi, crede di sapere tutto, in realtà non sa niente, e alla fine se li strapperà quegli occhi inutili. Il cuore del dramma è quando Edipo incontra Tiresia, l’indovino cieco, colui che non la la vista, ma possiede la capacità di “prevedere”. Gli occhi fisici non servono a nulla infatti, se non si possiedono quelli della mente. Edipo è certo di conoscere, ma non conosce nulla, si rivela essere un “idiota”, parola non intesa nel significato che noi oggi le diamo, ma nel senso etimologico di “privato”. Idiota (notare che ha la radice “id”, sempre del verbo “vedere”) è colui che si occupa solo del suo privato, chi non sa guardare oltre il proprio naso, perché non gli interessa ciò che è pubblico, ma solo le proprie faccende. Ma uno che non va oltre se stesso finisce per perdere se stesso, arroccandosi nella difesa di ciò che ha, non capisce che perdere ciò che ci appartiene, ci fa guadagnare altro…
Dobbiamo perderci nella musica, sentire la nostra appartenenza ad una umanità superiore, sentire la nostra profonda animalità, allora entra in vigore la legge più duratura dell’antichità: la “xenia”. “Xenos” è lo straniero, ma anche l’ospite (xenofobia oggi, filoxenia per i Greci): Legge della xenia era ospitare il forestiero che arrivava senza cattive intenzioni, dare ospitalità a chi veniva da fuori (se poi questa non veniva ricambiata erano spietati…). Ulisse viene accolto dai Feaci, ad esempio. Quale tragedia parla di questo tema? “Medea” di Euripide.
Medea rappresenta l’amore selvaggio, l’eros che fa impazzire, compie una vendetta mostruosa: uccide la nuova moglie di Giasone, il padre di lei e i propri figli avuti con Giasone. Ma Medea chi è? Medea è “la straniera” per eccellenza, è “la barbara” (il significato etimologico del termine è “balbuziente” perché non conoscendo la lingua non parla greco, balbetta…) Proviene da una regione lontana, selvaggia: la Colchide, sul Mar Nero. Però lei ha accolto Giasone e gli Argonauti che cercavano il famoso “vello d’oro”, li ha accolti e aiutati, rinunciando a tutto, tradendo il padre e il suo popolo, fuggendo con lui… Ma, arrivata in Grecia, Medea non è ben accolta a Iolco, né a Corinto dove Giasone decide di spostarsi e unirsi alla figlia del re del posto. Non viene data ai figli di Giasone e Medea la cittadinanza, perché lei è la “straniera”, la “barbara”. La sua vendetta è selvaggia. Medea brucia d’amore e rancore, un rancore mostruoso che va oltre la propria umanità, l’appartenenza a quel che dovremmo essere, la nostra “animalità”.
Dopo Euripide, ultimo grande tragediografo, prende il sopravvento il dialogo, il “socratismo”, non più la musica, si “discute”. Socrate è il primo “filosofo”: passava le giornate a parlare con chiunque incontrasse, metteva in discussione, metteva in “crisi”, parola che in greco significa “scelta”; il verbo “krino” significa scegliere, “diakrino” vuol dire “discernere”. Ma già gli eroi ed eroine protagonisti della tragedia si trovavano a scegliere; il destino degli esseri umani è soffrire: questo il messaggio. Siamo costretti a prendere delle decisioni, a non rimanere al bivio, a rischiare, pur sapendo che soffriremo.
Socrate invita alla discussione: siamo in disaccordo? Bene, discutiamone, alla fine si arriverà ad intenderci… comunque ad un punto d’incontro. Fuori dal teatro ci si incontrava, infatti, e si discutevano i temi proposti, questo era magico, questo vale come esempio da imitare anche oggi, soprattutto nel mondo attuale: vedersi, discutere, conoscersi e superare le barriere dell’individualità, perdere il “principium individuationis”, per sentirci parte di un tutto immenso…