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Rosaspina

agosto 29, 2020 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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Reinterpretare una fiaba, un mito… è una sfida che mi affascina da sempre.
Rosaspina, la “bella addormentata”, il malefico incantesimo, il muro di rovi che blocca ogni accesso, il grande sonno, lei che aspetta… Ma cosa aspetta? Chi aspetta? Il “principe” che la “risvegli”…
Ora c’è da chiedersi: e se ‘sto tizio non arriva? Se non trova la strada? Se non riesce a superare gli ostacoli? Se perde interesse, si stanca e punta su “cose” più facili?
Lei dorme. Questo è un dato di fatto. Vive, ma in altra dimensione. Chissà dove, chissà che combina nel sonno. In fondo, il sonno è pieno di messaggi, di storie, pari ad uno spettacolo teatrale. Lei ci sta bene, nel sonno. Placida, bellissima, sorride. Sta in un “altrove”. Perché allora dovrebbe “risvegliarsi?” Ma soprattutto, demandare ad un altro il proprio “risveglio”?
La mia Rosaspina non dorme.  Almeno in apparenza. A volte dorme ad occhi aperti. Di punto in bianco, “parte” e non c’è più per nessuno.  Alcuni (pochissimi), se ne accorgono. E glielo fanno notare. Ma tanto, lei così è. E se li gode i suoi momenti di “altrove”, quelli in cui chiude tutto il mondo fuori e cerca il contatto col profondo, scende dentro sé per il bisogno di scoprire la sua vera essenza,  cosa per nulla facile (ma -si sa- a lei non piacciono le cose facili).

La mia Rosaspina sta percorrendo una strada, o meglio un sentiero, uno di quelli che le piacciono, un sentiero nel bosco, a contatto con la Madre Terra e le creature vegetali e animali che lo popolano, i pericoli, gli ostacoli, i blocchi, le soste alla fonte, il greto del torrente, i sassi su cui inciampare e sbucciarsi le ginocchia, per poi rialzarsi e proseguire. Non possiede castelli, né letti a baldacchino, né servitù dorata. Ha imparato a badare a se stessa, a conviverci. In passato ha ingoiato tanto amaro, si è  sentita inadeguata, estranea, fuori posto… ora prova a stimarsi, a rispettarsi, ad amarsi, ad accettarsi così com’è. Sa di non essere sola. Altre anime condividono con lei il cammino. A volte le incrocia, ed è un toccasana reciproco, si forma una rete invisibile ma tenace, indissolubile, a cui sente di appartenere. Può capitare che l’angoscia le attanagli la gola, allora lascia che le lacrime scendano a fiumi e lavino via il dolore, può capitare che abbia voglia di urlare al cielo al mare all’Universo… che senta la lupa selvaggia dentro di lei lanciare il noto richiamo. Lascia che urli, ululare fa bene, ululano insieme… E prosegue. Cercando di rimanere nel “qui” e “ora”.
Ora è nel bosco. Se “lui” vorrà venire, qui la troverà.

 

Rosaspina

Son qua, sono sola, ti aspetto da tanto
del cuore selvaggio non senti il mio canto?
Eppure lo so che tu esisti davvero
forse smarrito hai soltanto il sentiero
che vuoi che io faccia, che segni il terreno
coi ciottoli bianchi di cui intorno è pieno?
Mi unisco al concerto di voci del bosco
allargo le braccia, volteggio, mi accosto
alla limpida polla ove beve il serpente
che scatta al mio arrivo, si dilegua repente
m’inginocchio ed immergo a coppa le mani
le arse mie labbra disseto – “Rimani!”-
la Madre Terra lancia un richiamo
geme la tortora, posata su un ramo
freme la felce, lo scoiattolo balza
del verde tappeto farò la mia stanza
le forre profonde saran la mia culla
la notte le stelle per tetto, poi nulla
muri di rovi non alzo alle spalle
guadare puoi il fiume, risalire la valle.
Se un giorno davvero a cercarmi verrai
avanza deciso nel folto, e mi avrai.

Circe

giugno 18, 2020 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

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Circe appare nel libro X dell’Odissea: approdato all’isola Eèa, sbarcato ad esplorare il luogo, Ulisse s’inerpica su una cima rocciosa e da lì scorge del fumo e la casa di Circe, tra i folti querceti e la macchia.
Da sempre conosciamo Circe come la “maga”, colei che offre ai compagni di Ulisse “tristi farmaci”, pozioni velenose, poi, toccandoli con la bacchetta, li rinchiude nei porcili, perché porci sono divenuti in tutto, tranne che nella mente, ancora umana. Terribile maleficio. Assurdo e inspiegabile. Pura cattiveria? Su Ulisse però, Circe non può nulla, perché lui, si sa, è aiutato dall’alto, e arriva Mercurio a donargli un’erba che annienterà il potere di lei, con la quale, dopo aver fatto liberare i compagni, l’eroe condividerà il letto per un anno. Dopodiché, Circe stessa gli indicherà la strada per scendere agli Inferi e interrogare l’indovino Tiresia circa la sorte futura. Tra i due un addio senza lacrime, né suicidi, né isterismi. Fine della storia. Figura femminile triste, come le sue pozioni, paurosa e terribile, enigmatica, da cui stare in guardia.
Ma Circe, figlia del Sole, è molto più di questo. Circe è figura “numinosa” e affascinante, come la sua casa di pietre lucenti, annidata in un bosco di querce secolari… la sua casa popolata da lupi e leoni, che non si avventano ma gioiscono all’arrivo degli stranieri, la sua casa che risuona d’un canto armonioso e le sue abili mani che tessono una tela immortale… Stupenda presentazione.
Prendiamo il canto: il canto è vibrazione, respiro, pneuma, soffio, spirito che crea la vita. Circe canta e “incanta”: uomini, piante, animali. Il canto è già trasformazione: l’aria viene introiettata in noi e fuoriesce attraverso il suono della nostra voce. Un suono potente e misterioso. Un suono che è la nostra essenza.
Altro elemento: la tela, la tessitura (che per me ha connessioni profonde con la scrittura e tutto ciò che le è collegato), la manualità, l’arte delle mani, l’opera delle mani che plasmano questo spirito, questo respiro, e lo rendono tangibile e fruibile al mondo. Un filo complesso, non il filo unico, lineare di Arianna che salva dai meandri del labirinto, ma un filo che si moltiplica all’infinito e tesse l’intreccio della vita.
Non c’è nulla di più bello, di più “magico” di questi elementi messi insieme.
E l’isola. Pensiamoci: il fatto stesso che la dea abiti un’isola, è speciale. Che cosa è un’isola? Un’isola è un “cerchio” (kirkos, in greco, il che risuona nel nome stesso: “Circe”), circondato dalle acque, che lo separano da ciò che è noto, un luogo che sta “al di fuori” del normale, al di là del tempo e dello spazio, un luogo “a parte”. Questi uomini non si rendono conto che stanno varcando un cerchio magico, un luogo “sacro”, nel quale più non valgono le regole del mondo, stanno entrando in un’altra dimensione. E l’uomo, si sa, il mito ce lo conferma, è assolutamente inadeguato a comprendere il divino nelle sue manifestazioni. Circe ha connessioni con la Gran Madre, che ha radici molto più antiche, e con Demetra, che vediamo raffigurata spesso con in braccio un maiale, animale a lei sacro. Circe ha il potere di trasformare la natura di coloro che varcano il confine. Ma l’uomo non comprende il senso profondo della trasformazione, che è vista solo come violenza. A cui Ulisse (aiutato da un dio) si sottrae. Ulisse è astuto, si sa, usa la mente e la razionalità, calcola, escogita scappatoie, ma non si evolve, in tutto il poema resta uguale a se stesso, non si trasforma, non compie un percorso di “formazione”. Perde tutti i suoi compagni, torna a casa solo e “salva la pelle”, sempre, in ogni avventura. Punto.
Ma cosa serve per essere trasformati? Tema molto attuale, riflettiamoci: occorre che “qualcosa” ci fermi, ci costringa, ci rinchiuda senza possibilità di fuga, ci pieghi ad una “stasi”, in un radicale capovolgimento della nostra vita, delle nostre certezze, delle nostre abitudini. Circe appare come una “seduttrice”, ma “se-durre” significa appunto “portare altrove”, “condurre da parte”, Circe “affascina”, ma essere legati “in fasci” vuol dire appunto essere costretti, bloccati, legati e impotenti, alla mercé di un altro, o di un’altra cosa, essere “imprigionati”.

Quando si smette di voler razionalizzare tutto e ci si abbandona all’incomprensibile, quando si decide di lasciare “fluire” gli eventi, allora e solo allora sarà possibile aprire un varco che ci consenta di “passare al di là” e scoprire altre dimensioni, forse il nucleo più profondo e vero di noi stessi. La divinità ci offre la trasformazione, ma questa è fatta solo a metà (altra cosa che può parere crudele: corpo di porci, mente umana), tocca a noi scegliere se tornare indietro, alla vita di prima, o rimanere porci e mangiare ghiande per sempre o divenire lupi e leoni e condividere la dimora col divino. Siamo anche noi compagni di Ulisse: alla fine della “chiusura” cui siamo stati costretti (da un “dio” o da qualcos’altro…) non tutti si trasformeranno: la maggior parte rimarranno identici a com’erano prima, altri anzi peggioreranno, pochissimi oseranno cercare strade e “dimensioni” nuove.
All’isola di Circe, dunque, approdata dalle tempeste della vita, l’ho invocata così:

Nel regno di Circe

Sbattuta dai colpi di Nettuno
prona giacendo
in sconosciuta rena
le mani affondo

sono fuori dal mondo
naufraga nel tuo regno
cinto dall’acque intorno.

L’alba è di un nuovo giorno
m’alzo e respiro a fondo.

Alla dimora di lucenti pietre
guidami, o numinosa
la tela e il canto insegnami
e la trasformazione

più non grufolerò
né bramerò tornare
all’umana dimensione.
Lupo io diverrò
e leone.

 

Mi sono avvalsa, per questa interpretazione,  delle lettura di un interessante testo di Carla Lanfranchi: “Circe, la seduzione che trasforma”,  Il Club delle Streghe, Mermaid Editore.

Arianna

giugno 16, 2020 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

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Ariadne_in_Naxos,_by_Evelyn_De_Morgan,_1877

Tutti conoscono Arianna come colei che dona a Teseo il filo per uscire dal labirinto, dove suo padre Minosse ha rinchiuso uno scomodo “figliastro”, mostro orrendo, generato dalla folle passione della sua sposa Pasifae nei confronti di un toro bianco. Riandando alle origini, però, Minosse stesso aveva messo in moto questo meccanismo, non avendo rispettato la promessa fatta a Poseidone di sacrificargli uno splendido toro candido, che il dio aveva fatto uscire dal mare per sancire la regalità di Minosse sull’isola di Creta. Il toro era talmente bello che Minosse lo tenne nella sua mandria, sacrificandone un altro al signore del mare. Da qui la passione fatta nascere dal dio nel petto di Pasifae per il toro salvato dal sacrifico, e l’unione mostruosa dei due, avvenuta grazie ad una vacca di legno costruita da Dedalo, in cui entrò la regina per farsi montare dalla bestia. Che creatura poteva nascere da ciò? Un essere di cui vergognarsi, un reietto, un rifiuto col corpo umano e la testa di toro, imprigionato da Minosse nel labirinto ideato da Dedalo, un mostro che si cibava di carne umana: ogni anno gli venivano sacrificati 7 fanciulle e 7 giovani ateniesi. Finché, alla terza triste spedizione di carne, ai giovani si unì Teseo, figlio del re di Atene…

L’eroe, ecco. Il mito è pieno di questi eroi, uomini forti, sgominatori di mostri, conquistatori di popoli e città, che compiono imprese eccezionali, senza fermarsi mai, superando le prove più ardue. Spesso, però, hanno bisogno di una donna per portare a termine le loro imprese. E le donne, si sa, si innamorano… Perché un dio ci mette lo zampino,  o semplicemente perché loro ascoltano il cuore e ci cadrebbero comunque, nella trappola. Senza l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, Teseo avrebbe ucciso il mostro, ma non sarebbe stato capace di uscire dal labirinto. Lei escogita l’astuzia del filo da dipanare all’entrata, per potere ritrovare la strada al ritorno. Detta così pare un gioco da bambini, una cosa semplice, l’uovo di Colombo… un’astuzia a cui lui, comunque, non sarebbe arrivato. Come ringraziamento per l’aiuto ricevuto, Teseo che fa? Porta via con sè, come promesso, la donna innamorata, che per lui tradisce il padre e perde la patria, salvo abbandonarla di notte, mentre lei dorme ignara, nell’isola di Nasso, dove hanno fatto scalo. Gli “eroi” così si comportano, si pensi a Giasone con Medea, allo stesso Enea con Didone.. ma la storia sarebbe lunga e ripetitiva. Fatto sta che questi “eroi” si servono delle donne che incontrano nelle loro peripezie, le usano finché fa loro comodo, poi non si fanno scrupolo alcuno ad abbandonarle, tradirle, ripudiarle  quando diventano scomode, inutili e fonti di guai.
La mia Arianna, quella trasposta da me nel mondo moderno, nella raccolta poetica “Il mito al femminile”, lo scruta negli occhi (azzurro cielo) il bel Teseo, il maschio forte e dominatore, lo affronta a viso aperto, lo invita a guardarsi dentro. Nel suo labirinto. A cercare il mostro dentro sé. Perché tutti noi abbiamo il nostro labirinto, in cui alberga la zona ombra, quello che non vogliamo riconoscere, quel che ci fa paura, il nostro mostro, il mare dell’inconscio che non vorremmo scandagliare, la vita stessa è un labirinto, uno zigzagare perenne per perderci e poi ritrovarci, una serie di giri e angoli e svolte da superare per raggiungere il centro, il nucleo in cui saremo finalmente soli di fronte a noi stessi, alla nostra vera faccia. Il centro da cui ripartire rinnovati, ed uscirne fuori “iniziati”, ogni volta. Il mostro che Teseo intende sgominare è in realtà se stesso, uno scontro in cui vincitore e vinto sono la medesima persona.
La mia Arianna, non figlia di re, ma donna che scrive, dona a lui tutto quel che ha, la cosa più preziosa: un filo fatto di parole, un filo rosso, perché la penna questo rappresenta per me: un bisturi che incide, scava in profondità, nel sangue. A lui spetterà saperlo utilizzare nel modo giusto per districarsi dal labirinto della vita.

La mia Arianna dice a Teseo:

Che vai cercando, straniero
dagli occhi azzurri e dallo sguardo fiero?
A gran voce eroe ti proclami
le mani hai colme di vento
gli eroi sono estinti da tempo.
Il mostro che intendi annientare
dentro te lo dovresti cercare.
Nel mio, nel tuo labirinto
il vincitore è identico al vinto.
Non tentarmi, nulla ho da dare
tranne questo filo
rosso di parole.

Afrodite

giugno 14, 2020 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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Come dice il suo nome, Afrodite nasce dalla spuma (afròs, in greco). Ma cosa è quella spuma? Mentre per Omero e Virgilio sarebbe figlia di Zeus e Dione, nella versione della Teogonia narrata da Esiodo nasce dalla spuma formata dal membro di Urano gettato in mare dal figlio Crono, dopo averlo evirato –  ( cruenta è la storia delle successioni dinastiche degli dei).
Da lì nasce lei, la divina, e viene trasportata dal vento Zefiro sulla spiaggia dell’isola di Citèra, poi a Cipro. Si capisce subito che sarà una incantatrice: i fiori sbocciano sotto i suoi piedi ai suoi primi passi, le vengono incontro per onorarla le Ore, le Cariti (le Grazie) … le offrono veste e cintura (il famoso “cinto” di Afrodite, fonte di tutte le grazie, i vezzi, i sospiri, le languide parole degli amanti, il cinto che perfino Hera si farà prestare per riportare a sé Zeus stesso, allontanandolo – almeno momentaneamente – dalle sue numerose “fiamme”) ), dal cielo scende un cocchio trainato da colombe per condurla sull’Olimpo (ma anche i passeri, e i  cigni si contenderanno l’onore di trasportarla nei suoi viaggi). Da subito Afrodite è “diversa”. Risplende. Arriva lei e il mondo si accende. La natura sboccia. Il mare freme. I venti la conducono.  Afrodite sarà inevitabilmente odiata da Athena ed Hera, anche per la famosa faccenda del “pomo della discordia”, avendola Paride preferita a loro due, come “la più bella”.  Afrodite vestita d’oro, definita appunto “aurea”, riempita di gioielli dal suo consorte Efèsto, Afrodite che è luce lei stessa, che non chiede amore, ma semplicemente lo  incarna.
Ma chi è Afrodite? Come si colloca tra le altre dee dell’Olimpo? Beh, è di sicuro una non omologata, non classificabile, non schedabile. Lei sta a parte, occupa una posizione tutta sua. Athena, Artemide, Hestia sono le tre dee vergini, le intoccabili; Hera e Demetra sono le dee madri; Ebe e Persefone sono le dee figlie. Afrodite non è niente di tutto ciò. Afrodite non riveste questi ruoli, Afrodite basta a se stessa. Sceglie da sé i suoi amanti, mortali o divini che siano (per citarne solo i più famosi: Adone, il bellissimo cacciatore ucciso da un cinghiale, il troiano Anchise da cui ebbe Enea, il marito Efèsto, lo zoppo deforme fabbro divino, e l’amante di sempre, il focoso Ares dio della guerra). Afrodite non li sceglie però per procreare, per divenire madre  a tutti gli effetti (i figli che da loro ha, saranno infatti cresciuti dai padri stessi), non li sceglie per “sistemarsi”. Afrodite ama per il piacere di amare. Desidera, sceglie, ama. Punto. Proprio per questo, forse, attrae, affascina in modo irresistibile.
Nel mondo moderno Afrodite è una donna che, appunto, sa bastare a se stessa, osa andare contro la “morale collettiva”, non è schiava del giudizio altrui, perché ben conscia del suo valore personale. Afrodite è innanzitutto una donna che si piace, si specchia e si piace, una donna che ha la forza di affrontare ogni giorno la vita: si piace non perché bellissima fisicamente, si piace anche con le rughe e i segni dell’età, anche quando ha le occhiaie fonde per una notte insonne, una notte di dolore, da cui sa comunque rialzarsi, lavare le tracce delle lacrime, sollevare la testa e riprendere la strada. La sua. Abbracciandola in pieno. Afrodite non è bella perché rifatta, lei è naturalmente “grazia” (grazia è molto più di bellezza: grazia ha a che vedere con l’armonia – nel mito una figlia sua e di Ares è, appunto, Armonia). Afrodite è una donna vera, autentica, sincera, una che non si nasconde, una che ha il coraggio delle proprie azioni. Fiera di sé.
Tutte possiamo essere Afrodite, quando siamo forti, consce del nostro valore, quando non ci lasciamo abbattere, quando risorgiamo, quando siamo creative (in ogni campo), quando facciamo ciò che ci fa stare bene, non quello che ci viene imposto, quando operiamo scelte personali, quando ci innamoriamo (non importa se di una persona, di una cosa o di un progetto, un’idea), quando vogliamo portare fino in fondo con entusiasmo e caparbia ciò che abbiamo iniziato … quando, insomma, crediamo in noi stesse. Questo ci fa essere Afrodite. Leviamo, dunque,  a lei questo inno:

Oh tu, nata da spuma
splendida come nessuna
dall’acque emersa su conca
a riva portata dall’onda
che sale scende sprofonda
spinta da Zefiro ardito
di Citèra sul lido fiorito
ai tuoi primi passi
perfino lucevano i sassi.

Oh tu, d’oro vestita
fresca alba di vita
cinta di tutte le grazie
i sorrisi i sospiri i languori
a cui soggiacciono i cuori.

Oh tu, profumo di rosa
d’ambrosia, di mirto
sul cocchio dai passeri spinto
osannata da tutto l’Olimpo

dona anche a noi l’ardimento
rinnova il fervore ch’è spento
il piacer di piacersi impariamo
donne allo specchio
l’armonia coltiviamo!

Athena

giugno 13, 2020 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

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Inizia oggi l’appuntamento con alcune figure femminili del mito, in relazione alla mia raccolta di poesie: Il mito al femminile”, edizioni Helicon 2016.
Cominciamo con Athena, la dea guerriera, nata dalla testa di Zeus: una insolita partenogenesi. Il signore dell’Olimpo, infatti, si era unito con Metis, La Prudenza, ma era venuto a sapere che, dopo avergli dato una figlia, Metis gli avrebbe scodellato un maschio destinato a detronizzarlo (cruenta sorte, comune alle precedenti generazioni olimpiche – lui stesso aveva detronizzato il padre Cronos). Perciò, conoscendo il potere di Metis di trasformarsi nei vari elementi, le chiese di divenire acqua e la ingoiò tranquillamente. Fine della storia, pensava. Ma aveva fatto male i conti, perché Metis prese posto nel suo capo (da lì continuò a dargli saggi consigli sempre, da lui seguiti o meno) e… inoltre era incinta. Un giorno, passeggiando bel bello nei pressi di un lago,  Zeus avvertì un forte mal di testa (il classico “cerchio alla testa”, per intenderci) ed era talmente insopportabile che chiese ad Efesto, il fabbro divino, di dargli un colpo d’ascia sulla fronte per risolvere la questione. Da lì, da quello squarcio, venne fuori Athena, armata di tutto punto (sua madre le aveva fornito l’armamento, sapendo di doverla proteggere): corazza, elmo, lancia, scudo… e invece di un vagito lanciò fuori un urlo di guerra potentissimo e danzò una danza selvaggia.
Athena, la dea della giustizia, della saggezza, della lealtà. La dea della guerra, ma non quella violenta di Ares, la guerra condotta con ordine e avvedutezza, quella che porta alla conquista delle città, ad esempio (Athena è protettrice della città che porta il suo nome, Atene). Athena ottiene il possesso dell’Attica vincendo in gara Poseidone, che per ottenerla aveva creato il cavallo, mentre lei aveva fatto il dono dell’olivo, simbolo di pace e prosperità, la pianta tipica di tutta l’area mediterranea  e a lei sacra (mentre il suo animale sacro è la civetta). Athena insegna agli uomini la navigazione, inventa l’aratro e insegna ad arare la terra, insegna ad usare la ruota per modellare i vasi, insegna alle donne a tessere, cucire, ricamare, e molto altro. Athena è protettrice delle arti, della letteratura, della filosofia. Athena è “tanta roba” insomma, ma soprattutto è “corazzata”. Noi la conosciamo così, in pittura scultura, immagini varie: tutta “chiusa”, tutta  trincerata, autoritaria e rigida, potente e tremenda.
Athena è detta anche Parthenos (Parthenone è il suo tempio sull’acropoli di Atene). Ovvero “vergine”, Athena fa parte delle dee vergini, insieme ad Artemide ed  Hestia. Athena, l’intoccabile, l’inguardabile. Sappiamo, da un inno omerico, che un giorno, mentre faceva il bagno ad una fonte, venne scorta per caso (e somma disgrazia ) dal giovane Tiresia, immediatamente accecato, anche se “risarcito” in qualche modo col dono dell’arte divinatoria – Tiresia divenne infatti il più famoso indovino (cieco) dell’antichità.
Trasposta nel mondo di oggi (cosa che ho inteso fare, scrivendo queste poesie), Athena è una donna appunto “corazzata”,  vista da fuori appare fredda, rigida, scostante, destinata a rimanere sola. Una donna che all’armamento fornitole da sua madre, già notevole, è andata aggiungendo, nel tempo, altre corazze, altri elmi, altri scudi, altri muri, altri paletti, altri blocchi. Bella chiusa, sigillata, schermata. Un lavoro sopraffine. Una donna che potremmo definire “tutta testa”, una che pensa e ripensa e finisce per usare troppo il cervello, una che non riesce a lasciarsi andare. Si detesta (a proposito di testa), oh sì, Athena a volte non si sopporta proprio! Lei, così forte, è una donna che non ha vergogna di piangere, che si lascia lavare dalle lacrime, è una donna che spesso non viene capita o comunque non si sente capita, perché una donna con la testa fa paura a chi vorrebbe manipolarla, non interessa a chi rimane in superficie, a chi considera troppo faticoso andare nel profondo per scoprirla davvero. Athena è decisamente una guerriera, una lottatrice che, nonostante le botte della vita, non si arrende. Athena lo sa, però, che la corazza che la protegge è anche la sua prigione, la gabbia che la racchiude, Athena vorrebbe gettarla via come un vecchio vestito logoro, sbarazzarsene, insieme allo scudo alla lancia all’elmo. Scendere in riva al mare e spogliarsi di quella “vecchia pelle”, come il serpente che si desquama, lasciare tutto lì, sulla riva, immergersi nell’acqua risanatrice e rinascere donna, femmina, amante, viva vera nuova.
Athena mi ha parlato e mi ha detto così:

Che ne sai quanto pesa la scorza
che mi stringe d’intorno le membra
quella che a te pare forza
è maschera ferrea calata
su morbide guance di fata.
Che ne sai della fredda armatura
d’una grata d’acciaio più dura.
Che ne sai dei sogni bambini
a una falce di luna impigliati
delle vesti femminee agognate
le notti di stelle perdute
le risate – ahimè – trattenute.
Che ne sai della voglia di esporre
il virgineo mio corpo ai lavacri
di fonte o sul mare
al fragore dell’onde
di donarlo ai sospiri
d’amante focoso
ricambiando con fremiti e baci
il suo sguardo peccaminoso.