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<> L’importanza dell’incipit

dicembre 08, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli…”  Chi non conosce l’incipit manzoniano? Si tratta di un inizio arioso, maestoso, l’autore fa un’ampia panoramica dei luoghi in cui si svolgeranno le vicende narrate, restringendo a poco a poco il campo visivo e ponendo l’attenzione sulle “strade e stradette, più o men ripide, o piane” che correvano “dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro”, per finire, con uno zoom da maestro, sulla figura di Don Abbondio che “Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628…” Ignaro, povero curato, dell’imminente incontro con i “bravi”, fonte per lui di somma disgrazia…
Inizio spettacolare, scenografico direi. Da narratore onnisciente, demiurgo che dirige dall’alto le sue “pedine”, ovvero i personaggi, ne sa più di tutti loro, legge nel loro animo, ne conosce le vicende passate e future, può muoversi liberamente nel tempo e nello spazio, tornando indietro con frequenti “analessi” o “flashback” o anticipando gli avvenimenti con le “prolessi”.

Esistono, però, altri tipi di incipit. Sappiamo, ad esempio, che nel racconto poliziesco, la cronologia degli eventi è rivoluzionata e l’autore inizia dal finale (in genere un omicidio o una serie di questi), per poi ricostruire l’antefatto e ciò che c’è nel mezzo…
Prendiamo uno splendido racconto di Tolstoj: “La morte di Ivan Il’ic”. L’autore rivoluziona la cosiddetta “fabula”, ovvero la successione logica e temporale lineare delle vicende, mettendo all’inizio l’ultima scena: la morte del protagonista.
Il primo capitolo si apre sul palazzo di giustizia, dove il giudice Petr Ivanovic annuncia: “Signori! Ivan Il’ic è morto”. Poi l’autore ci presenta l’ambiente ipocrita in cui il morto ha trascorso gran parte dell’esistenza, con queste parole:. “…il primo pensiero di ognuno di quei signori riuniti nell’ufficio, si volse al significato che quella morte avrebbe potuto assumere riguardo a trasferimenti o promozioni degli stessi membri o di loro conoscenti” Quindi ci introduce nella casa del defunto, col solito contorno di cordoglio, pianti, finta desolazione… Dal secondo capitolo avrà inizio l’analessi, con la storia – ormai passata – della misera esistenza di quest’uomo.

Esiste anche l’inizio “in medias res”, ovvero, per dirla alla latina, nel bel mezzo dei fatti, in cui l’autore provvede successivamente a far narrare, magari a un personaggio, gli eventi accaduti in precedenza. Prendiamo ad esempio l’Odissea, o l’Eneide, in cui Ulisse ed Enea raccontano rispettivamente al re Alcinoo e alle regina Didone le avventure che li hanno condotti fin lì.

Esistono incipit che in una frase folgorante racchiudono già il succo della storia. Voglio citare l’inizio di “Anna Karénina”, dove Tolstoj afferma: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Non c’è bisogno di alcun commento.

Esistono incipit originali, ironici, unici. Penso a “Se una notte d’inverno un viaggiatore” che fa così:
“Stai per iniziare a leggere il nuovo romanzo <<Se una notte d’inverno un viaggiatore>> di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: <<No, non voglio vedere la televisione!>> Alza la voce, se no non ti sentono:<<Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!>>. Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: <<Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!>> O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.”

Innumerevoli sono le possibilità creative. Chi ha detto che non si possa iniziare un romanzo o un racconto o anche una poesia con una “e”? Perché comunque, tutto inizia nella nostra testa: c’è un’idea che prima appare sfocata, o magari è come un lampo, una folgorazione, ma in seguito dev’essere ricostruita sulla carta, attraverso un attento lavoro di officina, dopo un certo periodo di “fermentazione”, perché quando si comincia a scrivere (almeno per me è così) avviene una specie di “parto” liberatorio che ha richiesto un periodo più o meno lungo e doloroso di incubazione… Perciò quell'”e” è pienamente giustificato. Dietro c’è tutta una storia…
Mi piace citare come esempio un racconto di Katherine Mansfield, la scrittrice neozelandese che amo particolarmente.
Si tratta di “Garden-party” che inizia così: “E poi il tempo era ideale. Non avrebbero potuto trovare una giornata più perfetta per un garden-party nemmeno se l’avessero ordinata”. L’inizio di un racconto straordinario per finezza di descrizioni e acutezza psicologica.
Per quanto riguarda la poesia, mi basta ricordare “Il gelsomino notturno” pascoliano, che inizia così:
“E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.”

Insomma, io credo che non ci siano regole prestabilite per cominciare a scrivere, a parte cercare di catturare il lettore fin dall’inizio, facendo in modo che venga preso dal desiderio di proseguire… Emozionarlo, coinvolgerlo, tenerlo avvinto… Non essere banali, scontati, non essere finti, non sottovalutare l’intelligenza altrui! Buon lavoro, dunque!

Le donne birillo

novembre 22, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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25 novembre: giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Il 19 settembre scorso, al bar caffetteria “Al volo”, in piazza Verdi alla Spezia, durante l’evento “Quadri da un’esposizione” organizzato dal mio amico poeta Enzo Gaia, abbiamo letto poesie abbinate ai quadri  delle pittrici Aurora Natale e Anna Maria Giarrizzo , esposti nel locale.
Una delle mie poesie, “Attendono le donne”, ispirata al quadro “Donne birillo” della Giarrizzo, mi sembra adatta alla ricorrenza del 25 novembre.

Mi preme comunque ribadire che la violenza  non conosce distinzioni di sesso, né di età, né di specie, va abolita, eliminata, rasa al suolo, distrutta, disintegrata sotto tutti i suoi aspetti, le sue innumerevoli schifose sembianze. Prima che distrugga noi, il mondo intero o quel che ne resta

Attendono le donne

Attendono le donne
vestite di pazienza
stanche vestali
a custodire un fuoco
che non scalda

Attendono le donne
vestite di conchiglie
rifuggono le briglie
e la cavezza

Attendono le donne
vestite di colori
se t’aprono i lor cuori
non regalare fiori
ma rispetta

Attendono le donne birillo
schierate in fila
ma sappia chi le mira
che risorgeranno
a ogni caduta.

Margherita, settembre 2014

L’arcobaleno

novembre 16, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  2 Comments

 

arcobaleno

Oggi voglio regalarvi una fiaba, tratta dal mio libro “Piccolo mondo”. La dedico non solo ai bambini, ma a tutti coloro che dei bambini conservano la libertà di sguardo.

L’arcobaleno

Nel mondo che c’è e che non c’è, e che forse sarà, si ergeva uno splendido castello. Le sue mura, le sue torri, i suoi ponti levatoi erano costruiti in materiale antinfiammabile, antiossidante, antiaderente, perché resistessero ad ogni tempo e cataclisma.
Il re di quel castello era il tredicenne Enrico: all’apparenza fragile, governava con pugno di ferro tremila tredicioni di sudditi, abitanti un trilione di terre lì intorno.
Enrico era solo. La sua mamma era morta dandolo alla luce, il suo papà era S780B2, un seme che sua madre aveva scelto alla banca di Geniopoli, dove si programmavano nascite di cervelloni.
Alla sua giovane età, Enrico era già laureato in elettrobiomagnetismo polare e scienza della navigazione interplanetare applicata alla trigonometria colorata. Aveva alle sue dipendenze un esercito di 8000 uomini-manta, cloni mutanti destinati a difendere i confini del regno. Facevano parte del suo Consiglio Privato 12 ministri plurilaureati, riciclati e collaudati con garanzia di 10 anni.

Enrico viaggiava spesso attraverso il suo vastissimo regno, in compagnia del ministro per le biorelazioni, dottor Impalato: un ometto azzimato, impomatato, nerovestito, che aveva sempre con sé un borsone pieno di questionari, test multimediali, programmi enterovirtuali da presentare ai sudditi perché li compilassero. Attualmente stava occupandosi del censimento.
“Dica il suo nome!”
“Tonarelli Giacomo.”
“Professione?”
“Metalmeccanico vulcanico.”
“Età?”
“Trentatrè più coccodè.”
Mentre Impalato era occupato a censire, Enrico s’interessava a tutto ciò che vedeva e, se trovava qualcosa che ancora non possedeva, subito esclamava:”Lo voglio!”
Portò via un cavallo a dondolo ad una bimbetta in lacrime, una macchina da scrivere modello antidiluviano ad una certa “Signora in giallo”, Il Mocio Vileda completo di secchiello ad una casalinga vecchio stampo, un libro di poesie a due innamorati, ecc…

Un giorno Enrico ed Impalato arrivarono ad un paese piccolo, ma così piccolo che stava tutto in una cartolina illustrata: tre case, nascoste tra due monti e attraversate da un ruscelletto.
Impalato censì tre vecchierelle: Filina, Filetta e Filò. Voleva lasciare i suoi bei questionari, ma Filina non vedeva un’acca, Filetta era completamente sorda e Filò, senza mezzi termini, gli disse:
“Senta, dottor Imparato…”
“Impalato, signora, prego!”
“Va beh, coso… m’importa un fico dei suoi fogli!”
“La prego, eviti certe espressioni davanti a Sua Maestà!”
Ma Sua Maestà non aveva udito una parola, poiché era rapito nella contemplazione di un fantastico arcobaleno apparso, nell’ultimo sole, tra le due montagne dilavate dal recente temporale.
Il re esclamò:”Lo voglio!”
Impalato cercò di spiegargli che non si poteva portarlo via, ma Enrico sembrava impazzito e ripeteva:”Lo voglio!”
Quando l’arco scomparve, si disperò: per la prima volta non poteva avere l’oggetto desiderato. Tornato a palazzo, fece chiamare lo scienziato di corte, Giovanni Gambetorte, il quale sentenziò:
“Trattasi di fenomeno causato dalla rifrazione dei raggi solari incidenti sulle gocce d’acqua di una nube che si risolve in pioggia e può essere osservato in determinate condizioni…”
Il re non lo fece finire: ordinò che si appendesse immediatamente un bando su tutti i muri di tutte le città del regno: il sovrano avrebbe regalato 1060 quadrilioni di crotoni a chi gli avesse portato l’arcobaleno.
Per quanto la cifra facesse gola a molti, nessuno poteva accontentarlo.
Il re, per il dolore, si ammalò e giacque a lungo nel suo letto a baldacchino, rifiutandosi di mangiare e di bere.
“Se vi ostinate, Maestà, finirete per morire!”, gli disse un giorno Impalato, il quale decise di partire, alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo a catturare l’arcobaleno.

Cammina cammina… dopo molto tempo, nel cortile di una poverissima casa, vide un bimbo sui quattro anni, che soffiava dentro una cannuccia, da cui uscivano delle bolle che volavano per aria. Una passò proprio davanti al nasone rubizzo di Impalato: sulla sua superficie risplendevano i colori dell’arcobaleno!
Senza indugio, il ministro condusse con sé al castello quel bimbo lacero, sporco, spettinato.
“Sire, venite, venite a vedere!”
Enrico, con la coperta sul naso, borbottò che lo lasciassero in pace, ma Impalato, dopo molto insistere, ottenne che Sua Maestà, ben avviluppato nelle coltri imbottite di piume, fosse trasportato sulla sdraio dorata posta nella gran loggia del castello.
Il bimbetto, seduto per terra, nel sole, mescolava con la cannuccia l’acqua insaponata di un secchiello. Accolse l’arrivo del re ridendo e battendo le mani. Poi cominciò a soffiare nella canna. Soffiava, soffiava… le bolle di sapone si alzavano nell’aria e su ognuna sfolgorava un arcobaleno in miniatura.
Enrico gettò via le coperte. Stupito, rapito, volle prenderne una, ma… plof! La bolla gli scoppiò fra le mani. Allora si alzò e colpì a destra e a manca, ma… niente.
Il bimbo rideva, Enrico si stizziva. Alla fine, stanchissimo, sedette anch’egli per terra e gentilmente chiese:
“Mi faresti provare?”
Prese il secchiello, la cannuccia, e soffiò, soffiò. Le fantastiche bolle si staccarono, volteggiarono sfolgorando nel cielo e… plof! Scoppiarono una dopo l’altra.
Sulla terrazza immersa nel sole, quel giorno Enrico vide il proprio volto ridente dentro una bolla: l’immagine del signorino che esclamava: “Lo voglio!” era scoppiata per sempre.

La Loba

novembre 06, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

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Chi è la “loba?”
Nel primo capitolo di “Donne che corrono coi lupi”, Clarissa Pinkola Estès, analista junghiana, autrice di testi splendidi oltre a questo, certamente il suo più famoso, ci presenta una strana figura di vecchia, il cui mestiere è raccogliere le ossa animali perse per il mondo, specie quelle di lupo. Una volta trovate, le ammassa nella sua caverna, le riunisce e, quando ha ricostruito l’intero scheletro, siede accanto al fuoco a pensare quale canzone cantare… Quindi si alza, solleva le braccia sulla creatura e inizia il canto. A poco a poco le ossa si ricoprono di carne e pelo, il lupo torna a respirare, apre gli occhi e balza giù per il canyon. Si narra che, o per la velocità della corsa o perché colpito da un raggio di sole o di luna sul dorso, a un certo punto lo si vede trasformarsi in una donna che ride e corre via libera verso l’orizzonte…

La vecchia è anche detta “La Que Sabé”, Colei che Sa. Abita un territorio misterioso, una specie di “mondo tra i mondi” che si trova nel profondo della nostra psiche, ed è – come dice Clarissa – “il luogo delle visitazioni, dei miracoli, delle fantasie, delle ispirazioni e delle guarigioni”. Questa infatti è una storia di resurrezione. Le ossa rappresentano l’aspetto indistruttibile della nostra natura selvaggia, che tutte noi donne possediamo, la natura istintiva da recuperare con le unghie e coi denti, se necessario, per tornare ad essere le creature integre, complete che un tempo (prima di divenire civilizzate, asservite, addormentate) eravamo.

La loba esiste, ve lo posso testimoniare: la sento ringhiare dentro me ogni volta che vorrei arrendermi e mi domando che senso abbia tutto questo e penso che è troppo pesante il fardello, la croce, il pellegrinaggio terreno o come vogliamo definirlo… E mi sento come Calimero piccolo, brutto e nero. Ma la loba non ci sta, urla, ricompone i miei resti e soffia sulle mie ossa dissestate ridandomi vita. Perché lei è la forza della natura, la stessa che fa spuntare un fiorellino fra le pietre. Se lo scorgi ti chiedi: “Come avrà fatto?” Eppure c’è, è bastato un granellino di terra, una goccia di pioggia ed eccolo lì. E vale più di mille fasci di rose coltivate.

Trascrivo qui una poesia che ho composto di recente, liberatoria, scritta di getto, ispiratami da queste pagine. Vale per me e per tutte le sorelle compagne di viaggio, a qualsiasi età, razza o condizione sociale appartengano. Vale per tutte noi che ancora abbiamo la forza per andare avanti, nonostante le ferite. Ma le cicatrici vanno portate con orgoglio: sono le nostre medaglie al valore.
P.S. Consiglio la lettura di questo libro anche agli uomini. Credo li aiuterebbe a scoprire l’universo femminile, a comprendere che una donna, una compagna, non è uno zerbino, né una crocerossina a vita, né un sostituto della figura materna. Magari leggessero questo testo coloro che sostengono di amare, mentre sono soltanto capaci di possedere!

LA LOBA

La vecchia cerco
pelosa e grassa
che dei fiumi i letti
setaccia
sui monti corre
fruga fra le forre
la sua passione è
ossa di lupo ricomporre

Insegnami, loba,
il canto che feconda
voce profonda prestami
di fango impronte
mi han guidata
per boschi e deserti
fino alla dimora tua
stregata
mondo tra i mondi
regno degli esseri di Bruma
son qui,
le nocche spello
al chiaro della luna

di legno blu la porta
dalle intemperie dilavata
ecco apri, o vecchia,
accanto al fuoco m’inviti
per soffiare
sul mucchio d’ossa dissestato
dal fondo di me recuperato

il respiro la vista acuta il fiuto
l’ebbrezza della corsa
l’ululato
canteremo, madre,
al ritmo del tamburo esploderà
la mia risata
libera e selvaggia

Febbre,catarro, ramarro…

novembre 01, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

ramarro

Il corso di lettura e scrittura avviato da me e dalla mia amica Rosanna Ianni, al Centro Dialma Ruggiero qui alla Spezia, e che verte sull’argomento: i cinque sensi, si sta rivelando proprio come noi l’avevamo ideato, non sono “lezioni cattedratiche” , ma incontri in cui ci si mette in gioco insieme , si esperimenta, ci si diverte, imparando a conoscersi.  Di solito s’inizia con un “esercizio a tempo”. Per chi non lo sapesse, si tratta di scrivere su un tema scelto da chi dirige, oppure pescato a caso da bigliettini preparati in precedenza, che riportano un sostantivo, una parola chiave  inerente all’argomento da trattare, ecc.  Regola è: scrivere per un lasso di tempo stabilito dall’insegnante, non più di  5 -8 minuti, scrivere alla svelta, senza staccare la penna né gli occhi dal foglio, concentrati senza fermarsi, senza tornare indietro a cancellare, se ci si blocca si può scrivere “Blocco” o altro, ma non è concesso arrestarsi, naso in su, masticando magari il tappino della penna, no, la penna deve continuare a scorrere sul foglio veloce, libera, sfrenata. Vi assicuro che, spesso, dagli esercizi a tempo nascono spunti interessanti che possono essere poi sviluppati in un racconto.
Trascrivo ora un mio esercizio a tempo, risalente ai tempi in cui io stessa frequentavo un laboratorio di scrittura. Ho scelto questo, perché bene rappresenta il mio stile e mi sembra adatto ai malanni della stagione che avanza…

FEBBRE

Febbre, catarro, ramarro verde sdraiato al sole mite d’un prato. Febbre, mare di muco giallastro, viscido impiastro ti blocca nel naso, ti cinge alla testa, vorresti tenere la lancia in resta, ma gran debolezza ti rende di pezza.
Coagulo caldo, ondate lucenti di sciroppi silenti che scorrono giù nella gola: bustine, cartine delle medicine. La Tachipirina ti lascia di brina, il Mucosolvàn ti prende per man, l’Aminomàl, dal gusto al veleno, ti morde nel seno, per fortuna che c’è il  Tio Tao che sa di cacao! Ti vien voglia di prendere tutto e gettarlo nel cesso, insieme al dottore, che aspetti da ore. Il sabato non è giorno indicato per darsi malato. Il sabato è festa: il mediconcino stacca la segreteria e se ne va via. Emigra a Torino: domani gioca la Juve e, se vince, figurati te, si sentirà al pari di un re!
Arriva alle 19.30 del lunedì, che hai la testa scoppiata, il naso intasato. Si avvicina pianino: “Da quanto respira così?” “Da venerdì”. E aggiungi: “Mi senta la schiena!”. Allora, proprio per non sfigurare, ti alza la maglia e, preso lo stetoscopio, sistema l’auricolare: “Inspiri bene, forza con me: 1, 2, 3… 1, 2, 3…  Sssì, ecco qua: è tracheite mista a bronchite. Adesso le scrivo…” E verga un biglietto, ordinando le pastigline, lo sciroppino e il fluidificante. Poi va dalla mamma: “Ma, cara signora, gliel’ho detto più volte: lei non sa espettorare! Bisogna imparare. Faccia dei colpi di tosse, deve allargare il diaframma… Ma no, non così! E il babbo? Lo devo auscultare… Anche lui va seguito, ahimè!  Uuuh! Fammi scappare!” , bofonchia piano, già sulla porta, con la valigetta in mano. E papà (gli pianterei le dita negli occhi): “Sì, è meglio che vada, dottore, sennò si ammala anche lei!”

E passi un’altra nottata sballottata tra sudori e catarri, tremori e ramarri verdi, al sole adagiati, su tiepidi prati…