Nella primavera 2012 ho pubblicato, a mie spese in tipografia, una breve raccolta di racconti: <<Il principe brutto e altre storie pazze>>. Come affermo nella nota iniziale, credo di avere qui messo in pratica quanto mi disse, anni fa, il poeta ligure Paolo Bertolani, il quale, tra gli altri consigli, aggiunse: “Ricorda che per scrivere devi anche divertirti. Non essere accademica”. Ho capito in seguito la sua saggezza, che allora mi aveva lasciato perplessa.
In effetti per scrivere bisogna saper giocare con le parole, osare mettersi in gioco, senza remore né falsi pudori. Lasciarsi andare al libero corso della fantasia è una sensazione elettrizzante. Un toccasana nelle giornate buie. Nel comporre queste storie ho seguito una musica interiore, un gioco di rime, assonanze, consonanze… unico e originale, un ritmo tutto mio, che mi esce fuori fluido e spontaneo quando vado veloce e senza freni. Sono nati così dalla penna, con mio stesso piacevole stupore, personaggi strampalati, ma teneri, fuori dalle righe ma umani. Il tutto condito da uno spirito leggero e brioso, di stampo boccaccesco. Inusuale per i lettori che mi conoscono quale persona seria, impegnata in narrazioni spesso forti, di denuncia sociale. Solo pochi di essi (i più acuti) hanno capito il gioco sotteso a queste pagine, quanto restino tuttora importanti e quanto mi sia divertita a scriverle!
Se c’è una cosa che detesto sono le etichette, le definizioni statiche. La mia penna (che pesca direttamente dalla mia anima) non ci sta a farsi inscatolare, la mia penna vuole volare e spaziare dal tragico al comico al grottesco all’ironico-satirico…. alla difficile ma affascinante arte dell’autoironia!
Perché, come dico sempre nella nota iniziale della raccolta, pirandellianamente mi ritengo un “condominio” zeppo di “ospiti”: sono le mie mille facce che fanno ressa, fanno a pugni per avere uno spazio. Respingerle sarebbe sbagliato, la scrittura mi consente di dare loro voce.
A conferma di quanto dichiarato sopra, trascrivo l’inizio di uno dei racconti:
MARIO IL PAZZO
La Simona era ignuda sul terrazzo, quando passò nel pomeriggio Mario il pazzo. Lo chiamavano così perché viveva solo, parlava tra sé e sé giocando a pallavolo senza squadra, aveva adottato una gazza ladra consacrandola sovrana del suo campo di girasoli giallo oro acceso, che al mercato di Pescia aveva preso.
La Simona amava l’integrale nella pasta, nel pane, nonché nel sole, e soleva prendere la tintarella offrendo all’aria ignuda la mammella. Stava lì, mora di pelle e di capelli, ad ascoltare il canto dei fringuelli, con nemmeno un filo di mutande a velarle il triangol tra le gambe.
Mario quel dì era molto serio: aveva appena perso una partita a dama in cui giocava bianco e nero e s’appressava incacchiato per davvero, alto, magro, rosso di chioma come sua madre buonanima, la Sfrigolona – così chiamata perché ai bei tempi amava sfrigolare in padella crocchette di riso alle zanzare, che Mario non seppe mai apprezzare.
“Ehi, Mario, come ti vedo serio! – l’apostrofò Simona – Eppure oggi il sole picchia forte, il cielo è terso, cantano gli uccelli e giocano in cortile dei monelli. Perché non sali, che ti offro un cicchettino? Ho del buon rosso, sincero, genuino. Ti tirerebbe su il morale: hai una faccia da vero funerale!”
Mario… la Simona non è che non la trovasse bona, tuttavia era timido, esitante, a squadrare quella lassù senza mutande: a lui la donna faceva paura, specie se avida, sicura. Accettò comunque di salire e con due falcate arrivò alla porta, che trovò già aperta.
Presentandosi tutta sorridente – s’era gettata addosso una cosetta trasparente – lei prese dalla credenza un bel bicchiere, riempiendolo di rosso Belvedere. Era il migliore vino di quei posti, e non avea nemmeno grossi costi, perché lo produceva in gran partita la ditta Rossi & Macchi Tita.
Il giovane non volle mettersi seduto e lei gli si piazzò così davanti, lisciando insinuante i fianchi.
“Senti, Mario… – iniziò con mellifluo accento – Tu sai, sono vedova novella, una frittata senza la padella. Mio marito era alquanto benestante, non mi posso lamentare: soldi ne ho da dare. Manca, diciamo, la materia prima: l’uomo, la carne, l’amante, l’amico (meglio se fico). Con me tu ti potresti sistemare…” – e lo guardava con occhi verdemare languidi, ammiccanti, che avrebbero dannato pure i santi…..