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Quando scrivere è un gioco

gennaio 25, 2015 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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Nella primavera 2012 ho pubblicato, a mie spese in tipografia, una breve raccolta di racconti: <<Il principe brutto e altre storie pazze>>. Come affermo nella nota iniziale, credo di avere qui messo in pratica quanto mi disse, anni fa, il poeta ligure Paolo Bertolani, il quale, tra gli altri consigli, aggiunse: “Ricorda che per scrivere devi anche divertirti. Non essere accademica”. Ho capito in seguito la sua saggezza, che allora mi aveva lasciato perplessa.
In effetti per scrivere bisogna saper giocare con le parole, osare mettersi in gioco, senza remore né falsi pudori. Lasciarsi andare al libero corso della fantasia è una sensazione elettrizzante. Un toccasana nelle giornate buie. Nel comporre queste storie ho seguito una musica interiore, un gioco di rime, assonanze, consonanze… unico e originale, un ritmo tutto mio, che mi esce fuori fluido e spontaneo quando vado veloce e senza freni. Sono nati così dalla penna, con mio stesso piacevole stupore, personaggi strampalati, ma teneri, fuori dalle righe ma umani. Il tutto condito da uno spirito leggero e brioso, di stampo boccaccesco. Inusuale per i lettori che mi conoscono quale persona seria, impegnata in narrazioni spesso forti, di denuncia sociale. Solo pochi di essi (i più acuti) hanno capito il gioco sotteso a queste pagine, quanto restino tuttora importanti e quanto mi sia divertita a scriverle!
Se c’è una cosa che detesto sono le etichette, le definizioni statiche. La mia penna (che pesca direttamente dalla mia anima) non ci sta a farsi inscatolare, la mia penna vuole volare e spaziare dal tragico al comico al grottesco all’ironico-satirico…. alla difficile ma affascinante arte dell’autoironia!
Perché, come dico sempre nella nota iniziale della raccolta, pirandellianamente mi ritengo un “condominio” zeppo di “ospiti”: sono le mie mille facce che fanno ressa, fanno a pugni per avere uno spazio. Respingerle sarebbe sbagliato, la scrittura mi consente di dare loro voce.
A conferma di quanto dichiarato sopra, trascrivo l’inizio di uno dei racconti:

MARIO IL PAZZO

La Simona era ignuda sul terrazzo, quando passò nel pomeriggio Mario il pazzo. Lo chiamavano così perché viveva solo, parlava tra sé e sé giocando a pallavolo senza squadra, aveva adottato una gazza ladra consacrandola sovrana del suo campo di girasoli giallo oro acceso, che al mercato di Pescia aveva preso.
La Simona amava l’integrale nella pasta, nel pane, nonché nel sole, e soleva prendere la tintarella offrendo all’aria ignuda la mammella. Stava lì, mora di pelle e di capelli, ad ascoltare il canto dei fringuelli, con nemmeno un filo di mutande a velarle il triangol tra le gambe.
Mario quel dì era molto serio: aveva appena perso una partita a dama in cui giocava bianco e nero e s’appressava incacchiato per davvero, alto, magro, rosso di chioma come sua madre buonanima, la Sfrigolona – così chiamata perché ai bei tempi amava sfrigolare in padella crocchette di riso alle zanzare, che Mario non seppe mai apprezzare.
“Ehi, Mario, come ti vedo serio! – l’apostrofò Simona – Eppure oggi il sole picchia forte, il cielo è terso, cantano gli uccelli e giocano in cortile dei monelli. Perché non sali, che ti offro un cicchettino? Ho del buon rosso, sincero, genuino. Ti tirerebbe su il morale: hai una faccia da vero funerale!”
Mario… la Simona non è che non la trovasse bona, tuttavia era timido, esitante, a squadrare quella lassù senza mutande: a lui la donna faceva paura, specie se avida, sicura. Accettò comunque di salire e con due falcate arrivò alla porta, che trovò già aperta.
Presentandosi tutta sorridente – s’era gettata addosso una cosetta trasparente – lei prese dalla credenza un bel bicchiere, riempiendolo di rosso Belvedere. Era il migliore vino di quei posti, e non avea nemmeno grossi costi, perché lo produceva in gran partita la ditta Rossi & Macchi Tita.
Il giovane non volle mettersi seduto e lei gli si piazzò così davanti, lisciando insinuante i fianchi.
“Senti, Mario… – iniziò con mellifluo accento – Tu sai, sono vedova novella, una frittata senza la padella. Mio marito era alquanto benestante, non mi posso lamentare: soldi ne ho da dare. Manca, diciamo, la materia prima: l’uomo, la carne, l’amante, l’amico (meglio se fico). Con me tu ti potresti sistemare…” – e lo guardava con occhi verdemare languidi, ammiccanti, che avrebbero dannato pure i santi…..

Amata penna

gennaio 15, 2015 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

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Sappiamo che per secoli la scrittura è stata preclusa alle donne, eppure il “testo” (dal verbo latino che significa “tessere”) che altro è se non un “tessuto” di parole? Le parole sono i fili che tracciano un disegno sul foglio, come su un arazzo. Si tratta di “tessere” quindi; pensiamo anche ai termini: “intreccio” e “trama” e… voilà, ditemi se la scrittura non si rivela come attività squisitamente femminile!
Ritagliamoci dunque un angolo (se non abbiamo una stanza – come sosteneva Virginia Woolf – tutta per noi), e diamo libero sfogo alla nostra creatività:..

Per scrivere, in fondo, basta così poco: un foglio, una penna… materiale che possiamo portare con noi dovunque… Non creiamoci l’alibi del: “Non ho tempo da perdere!” o “Tanto, non sono capace” o “A che cavolo potrebbe servirmi?” Coltivare una passione non è mai tempo perso, serve per crescere, aiuta a trovare la propria dimensione, mette in moto forze straordinarie richiamate dal profondo di noi, che neppure pensavamo di possedere, dona nuova linfa alla nostra esistenza.

Si suol dire che scrivere è un’attività per solitari, nondimeno scrivere vuol dire mettersi in relazione con gli altri, con chi ti leggerà (a meno che tu non voglia tenerti le carte chiuse a chiave in un cassetto), significa aprirsi, e ciò è positivo, ma richiede una notevole dose di coraggio. Per me scrivere significa “osare”, denudarsi non solo nei contenuti (il che non è cosa da poco!), ma anche stilisticamente, linguisticamente… Per una persona schiva quale io sono, scrivere è senza dubbio un atto di liberazione (ciò che non riesco ad esprimere a voce, mi esce fuori inaspettato dalla penna), ma anche di umiltà.
Creare un altro “essere”, dare alla luce un personaggio… è qualcosa di straordinario, prometeico. Tuttavia nell’atto stesso c’è anche una componente di umiltà, perché ci sei tu che stai “creando”, ma quel che viene fuori dalla penna a mano a mano acquista un corpo, una voce, un’identità, e tu devi farti da parte, lasciargli spazio (come fa una madre col suo bambino), perché lui ti si impone.
Sono d’accordo con Pirandello quando sostiene che non si dà vita impunemente a un personaggio, perché esso, creatura dello spirito, già vive di una vita propria che l’autore non ha più potere di negargli. E coglie ogni istante della giornata per riaffacciarsi e tentare l’autore, proponendogli ora questa ora quella scena da rappresentare, fino a diventare un’ossessione.

Mettere in scena, appunto: scrivere è “rappresentare”, ovvero non semplicemente enunciare, dichiarare. Gli avvenimenti e i personaggi vanno rappresentati, fatti vedere. Quando leggo un libro, se è un buon libro, io lo “vedo” nello schermo della mia mente. Attenzione: leggere non è un’attività passiva. Capita che chi legge si trovi a “riscrivere”, diventando lui stesso protagonista della storia narrata, dando corpo ai personaggi. Ogni lettura, in fondo, è una creazione.
Lettura e scrittura sono sorelle, vanno di pari passo, si alimentano della stessa sostanza, non si può pensare di scrivere senza avere mai letto, senza conoscere il piacere di attraversare altre esistenze, vedere altri panorami, annusare altri odori sulle pagine di qualcuno che magari è vissuto secoli fa e tuttavia la sua voce ti arriva nitida e forte in questo momento, attuale e diretta parla proprio a te. Ecco che l’incontro fra lettore e scrittore si realizza come un miracolo, al di là del tempo e dello spazio, nella dimensione del possibile!

Come dice la parola stessa, l’arte è artificio, tecnica, costruzione, architettura, non improvvisazione, ma non dimentichiamo che è anche stupore, meraviglia, emozione. Occorre emozionarsi per riuscire ad emozionare, avvincere, tenere il lettore legato alle pagine fino all’ultima riga… Emozionare tramite i contenuti e lo stile, la scelta non banale dei vocaboli, il taglio delle frasi, ovvero il ritmo, che dà la musicalità, il respiro alla pagina.

Alla fine ci si accorgerà che scrivere non è tanto comunicare ciò che si sa (arido sfoggio di erudizione), ma scoprire ciò che non si sapeva di conoscere!

La vera storia della Befana

gennaio 06, 2015 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  2 Comments

 

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Oggi, 6 gennaio, 2015, vi regalo una poesia pubblicata nel mio libro: “Piccolo mondo”, dedicato ai bambini e a quegli adulti, folli e fortunati, che ancora riescono a conservare un animo bambino.

La vera storia della Befana

Era nata gran regina, il suo castello stava in cima a una collina, si chiamava Valentina. Era carina, ve lo giuro, me l’ha detto mio fratello che portava l’asinello su, nei monti del Righello.
Lui la vide una mattina di marzo, quando il cielo è tutto terso… era splendida, vestita di velluto!
“Vi saluto, messere, ma che belle quelle pere!”
“Mia signora, le porto alla casa dei vecchietti e, con tutti i miei rispetti, non posso più aspettare: quella gente ha bisogno di mangiare!”
Mio fratello era un ragazzo, a quei tempi cavalcava l’asinello come un pazzo, ma aveva un cuore d’oro.
“Che tesoro!”, pensò lei e, seguendolo, vide che, arrivato là, s’intratteneva con Giobà, lisciava i fili bianchi di Chiarina, donava caramelle a Gelsomina.
La regina disse: “Perché fai questo, giovanotto? I tuoi amici vanno a balli, feste e gite, e tu passi così le tue giornate!”
“Regina, non c’è niente di più bello che donare del tempo a tuo fratello.”
Lei capì ed intraprese un lungo viaggio; partì che era maggio, con le rose ed un sorriso sul bel viso.
La seguiva una gran folla di persone: servitori carichi di cibo, paggi che portavano bauli pieni di vestiti, valletti con forzieri zeppi di diamanti, rubini e pietre rare.
Prese a distribuire nel mondo tutto quel che aveva e mai a nessuno negava una parola, un consiglio, una carezza.
Nella brezza leggera della primavera o nel mezzo della tempesta più nera, instancabile arrivava là, dove il bisogno la chiamava.
Viaggiò in Cina, Bolivia e Canadà…. gira di qua gira di là, alla fine non rimase più nemmeno un servitore, ma lei a tutte l’ore continuava ad assistere i poveretti, quelli sottomessi ai dispetti del destino.
Passarono molti, molti anni e … un mattino fu presa a sassate da un bambino.
“Brutta strega!”, le gridò qualcuno. La cacciarono da Belluno. “Via di qui!”, le urlarono dietro a Canicattì.
Poveretta, non capiva e morire si sentiva, finché non s’intravide nell’acqua di un laghetto: era diventata orrenda, il naso adunco, l’occhio oblungo, in testa quattro peli, i denti tutti neri!
Fuggì nei boschi, allora.
“Ecco, è arrivata la signora!”, la derisero le streghe che ballavano il sabba al chiar di luna. “Oh bella Valentina, hai disceso ormai la china! Ti conviene imparar l’arte da noi, non c’è altro da fare, sei così brutta che tutti fai scappare!”
La notte intera le streghe ballarono, fecero congreghe, usaron sortilegi, malie… Corbellerie! Tentarono invano di soffocar l’amore che ancora abitava di Valentina il cuore.
Da allora ebbe in suo potere quelle vecchie, orribili megere, le mise a lavorare in un grande magazzino di giocattoli innalzato lì nel bosco, grazie ad una magica pozione: l’odioiononticonosco.
Valentina divenne abilissima nel volo con la scopa (glielo insegnò la brutta Mamaiòca) e decise che, almeno un giorno all’anno, tornasse a fare quel che più amava: donare.
Di notte arriva, tra il 5 e il 6 gennaio, silenziosa scende nelle case dei bambini, porta tanti bei balocchi, riempie i calzini di dolcetti, lascia pure pezzi di carbone per i più discoletti… Scappa poi via veloce, per non spaventare i pargoletti.
Ma qualcuno l’ha vista alla luce della luna, una volta ch’è rimasta impigliata nelle tegole del tetto con la sua veste di lana, questa cara, dolcissima Befana!

Che strano!

dicembre 21, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

Facce

Che strano! In questo periodo non mi sento “più buona”, anzi – se possibile – ancora più brontolona.

 Non lancio auguri a destra e manca. Mi sono sempre chiesta cosa significhi e se chi generosamente li sparge qua e là, conditi da pacche sulle spalle, sbaciucchiamenti e tutto un contorno di bla bla bla, sappia cosa cavolo sta facendo.

Non appendo al portone di casa corone sempreverdi similcimiteriali, arricchite da mini pacchetti, palline colorate e vezzosi fiocchetti.

Non sopporto i pupazzi travestiti da Babbo Natale, penzolanti dalle ringhiere dei terrazzi. Mi fanno una gran pena, peggio di un cane alla catena.

Non vado in estasi davanti a un paio di mutande rosse, alle vetrine bardate, alle piazze affollate, alla corsa ai regali, ai salti mortali per essere pronti, scattanti, sull’attenti, miei signori, per accogliere amici e parenti.

Non m’interessa fare “bella figura”. Non troverete carni di alcun tipo sul mio desco, al massimo… un piatto di trofie al pesto. Niente – ahi voi! – panforte, panettone o pandoro. Sì alla frutta fresca e secca (quest’ultima, almeno, abbassa il colesterolo.)

Non ho inviato letterine al Babbo, non ho scritto “fioretti” pieni di buoni proponimenti (come mi hanno insegnato a fare da bambina). Però, l’altro ieri – evento eccezionale – mi è venuta fuori una “poesia di Natale”.  Strana, anche questa…

Un bimbo è nato

Un bimbo è nato
da onde salate battezzato
su una carretta del mare sballottato

Un bimbo è nato
dentro un bagno pubblico lasciato
col cordone penzoloni
insanguinato

Un bimbo è nato
da provetta concepito
materiale selezionato pronto per essere
assegnato

Un bimbo è nato
errore di percorso non cercato
nel cassonetto tra i rifiuti
gettato

Un bimbo è nato
nel campo profughi affollato
a una vita di stenti
destinato

Un bimbo non è nato
indesiderato
dall’utero di mamma
cancellato.

RON

dicembre 14, 2014 Author: Margherita Bertella Category: Senza categoria  0 Comments

 

IMG_0695 Nel settembre del 2006 lasciava questa terra, dopo 14 anni di convivenza indimenticabile, il mio micione Ron, che comunque mi è sempre a fianco nel cammino della vita e rimane saldo nel profondo del mio cuore. A lui ho dedicato, l’anno successivo, la seguente poesia:

Ron

Che ne sapevo
quel mattino di un lontano maggio
quando per via intravidi
la sinuosa linea d’un profilo,
pensai:due passi dritta poi mi giro
se lui si volta…
Che ne sapevo,
quando ti voltasti, che avresti condiviso di lì a poco
il mio letto e la dimora,
ti saresti impossessato dei miei libri,
silenzioso estimatore
di vecchie liceali antologie
e classici latini,
imperatore fra i cuscini,
di passerotti stazionanti
sull’antenna del televisore
attento osservatore.
Che ne sapevo dei nostri giochi
delle corse pazze, delle zuccate,
dei naso contro naso…
Che ne sapevo del velluto del tuo passo
sfoggiato con sussiego
in occasione delle “occupazioni”
al termine delle quotidiane mie lezioni.
Che ne sapevo di quanto avrei rimpianto
il tepore del tuo corpo sul mio fianco
nelle notti tempestose,
le trepidanti attese dei miei ritorni
salutati da simulata indifferenza, sorda gelosia
perché per qualche tempo
me n’ero andata via,
la grazia di certi atteggiamenti
anche nei momenti di scontroso:
<<Fermi lì! Nessun mi tocchi!>>
fuoco e fiamme
nelle pozze dorate dei tuoi occhi;
i calci alle palline di stagnola,
i birbi appostamenti in corridoio,
gli assalti belluini alle caviglie,
un tuo autografo imprevisto e così sia
inciso in bella diagonale sulla mano,
intonsa – ahimè – dacché sei andato via.
Che ne sapevo?
Tutto sapevo fin da quel primo sguardo
impresso nel fondo del mio cuore
già lo sapevo, carissimo compagno,
mascalzone d’un Ron,
dolce mio amore!