Chi non l’ha provato? Il medesimo che ci prendeva sui banchi di scuola, quando ci veniva proposto un tema… l’angoscia dell’inizio. Le idee magari c’erano ma buttarle fuori era tutt’altra faccenda. Come riempire quella pagina bianca, quel mare latteo sconfinato? (Possibilmente non di farneticazioni.)
Come fare fronte allo spauracchio del blocco? Non ci sono regole prestabilite, né esiste una formula magica. Il blocco è una specie di gelo, mancanza di circolazione… Che si fa per non congelare? Bisogna muoversi. Mettiamo dunque in moto la penna sul foglio, veloce, senza programmare, senza pensare… Possiamo provare con un “esercizio a tempo” che proprio in ciò consiste: diamoci un tema, prendiamo una parola chiave e scriviamo su quella, svelti, senza pensare, senza pianificare, senza tornare indietro a cancellare o correggere, se ci viene da impantanarci scriviamo “blocco” oppure boh! o quello che vi pare, scriviamo “cavolo cavolicchio piripicchio”, inventiamo una filastrocca farlocca, basta che non alziamo il naso dal foglio per una decina di minuti o poco più… Molti dei miei racconti sono nati così. Dentro quella pagina c’erano spunti che ho poi sviluppato, indizi, fermenti d’idee, magari in miniatura c’era già un personaggio che voleva uscire.
Ricordo una volta ci ho trovato una ragazza con un lungo abito blu e le maniche rimboccate fino al gomito, le braccia piene di spuma… stava lavando pile di piatti col Last al limone! Che ci faceva una che pareva principessa al lavandino, in preda a smania lavanderina? Era forse in punizione? E il topo? Ecco infatti sbucare un topolino ai suoi piedi, un topo curioso, ciarliero, impertinente! Lei, impegnata al lavoro, mal sopportava le sue domande… E voilà, era nato il racconto “Aurora e il topo” che fa parte della raccolta (la mia primissima) “Fiabe, favole e rime”. In quelle frasi scritte veloci c’era la genesi di una fiaba da me reinventata in chiave moderna, assolutamente personale…
Anche per l’inizio del mio romanzo “Dovremmo farli incontrare” ero partita da una scrittura veloce. A un certo punto erano venuti fuori prati, pascoli, sentieri di campagna: lungo uno di questi camminava una ragazzina, pantaloncini corti, ricci neri… dove andava così decisa, con passo da bersagliera? Non mi restava che seguirla… Nel frattempo anch’io respiravo insieme a lei l’aria frizzante del mattino, mi godevo il cielo terso e il silenzio inframezzato dai primi cinguettii… poi ho capito dove si stava dirigendo: alla chiesa! Allora ho visto – anzi rivisto – non solo questa, ma il paese tutto: era Cervarezza, nell’Appennino tosco-emiliano, dove trascorrevo le mie estati di bambina… Ho inventato per la località un nome nuovo, ma alcuni dei personaggi minori che compaiono nel romanzo li ho ricalcati da paesani che mi sono tornati in mente, vivi come li vedessi sul momento… Ricordo la meraviglia con cui, in seguito, guardavo spuntare un personaggio dietro l’altro e la forza con cui loro mi si presentavano chiedendomi di continuare, di non abbandonarli per strada. Andare avanti era diventata una necessità.
La pagina bianca, non più nemica, era un tappeto volante su cui viaggiare, una zattera che mi portava in alto mare alla scoperta di nuovi orizzonti, nuove terre dove avrei fatto sosta, forse, ma solo per ripartirne al più presto. La penna ormai fluiva sul foglio… anche volendo non avrei più potuto fermarla.